Dott.ssa Francesca Casalino

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La dipendenza affettiva in psicoanalisi: una prospettiva transculturale

2024-09-28 16:10

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Elaborati e scritti,

La dipendenza affettiva in psicoanalisi: una prospettiva transculturale

La dipendenza affettiva in psicoanalisi ed il concetto giapponese di Amae.

Abstract

Nel redigere il presente elaborato, sono partita da un articolo di Parisi, Morelli e Marogna (2019) pubblicato sulla Rivista “


Gruppi

”, nel quale venivano indagati i meccanismi della dipendenza affettiva in donne vittime di partner violenti, mediante e attraverso il processo della terapia di gruppo. Nel suddetto articolo, la dipendenza affettiva, elemento centrale e distintivo delle partecipanti al gruppo, veniva intesa nella sua forma patologica, generata da un vissuto infantile di abbandono a trascuratezza. Sono state altresì riportate le diverse definizioni di dipendenza affettiva, utilizzate da vari autori appartenenti alla cornice psicoanalitica. Mi sono così imbattuta, leggendo il testo, nella differente concezione della dipendenza affettiva, insita all’interno della cultura giapponese, resa a noi nota dallo psichiatra e psicanalista Takeo Doi, attraverso i suoi scritti in merito all’


Amae

(1962; 1973; 1992). Ho trovato quindi molto interessante approfondire tale tematica, con l’intento di riportare, attraverso le parole e il dialogo tra gli autori, come il contesto culturale di provenienza possa influenzare il modo di intendere e di dare valore a fenomeni quali il desiderio di dipendenza e la dipendenza dall’oggetto amato, maggiormente stigmatizzati nella realtà occidentale, rispetto a quella giapponese (e non solo).




1. La dipendenza affettiva in psicoanalisi

Fin dai primi decenni del secolo scorso, psicologi, psicoanalisti, psicologi sociali e del comportamento si sono focalizzati sullo studio e sulle teorizzazioni in merito alla dipendenza nelle relazioni interpersonali e nei contesti organizzativi (Pascolo-Fabrici & Bonavigo, 2019).


La prima teoria riconosciuta sull'analisi della dipendenza, sia normale che patologica, è stata presentata da Freud (ibid.), nel suo lavoro "Tre saggi sulla teoria sessuale" del 1905, in cui ha descritto i tratti di personalità dipendenti come il risultato di una fissazione alla fase orale (1). Nello specifico, qualora la fase orale fosse stata caratterizzata da frustrazione o eccessiva soddisfazione dei bisogni, l’individuo avrebbe avuto difficoltà nel risolvere il conflitto tra autonomia e indipendenza, manifestando quindi in età adulta dipendenza per il nutrimento, assistenza, protezione e supporto, continuando ad abusare dell’oralità come fonte di gratificazione dei desideri e di difesa dall’angoscia (Bornstein, 1996).


Successivamente a Freud, ricordiamo autori quali Winnicott (1965), il quale ha suggerito che le fasi della crescita si collochino su un continuum che va dalla dipendenza assoluta all’indipendenza; Melanie Klein, che nello sviluppo della teoria delle relazioni oggettuali (1932) si è focalizzata sulla relazione madre-bambino nei primi anni di vita, quale base per le relazioni future. Anche la teoria dell’attaccamento (Bowbly, 1982) ha conferito un ruolo determinante alle qualità della relazione tra la madre ed il figlio, nella genesi dei legami in età adulta.
Nel contesto dell'età adulta, lo studio e le teorizzazioni sulla dipendenza affettiva hanno spesso enfatizzato aspetti patologici e negativi. Fenichel (1945) ha definito la dipendenza affettiva come "amore dipendente", considerandola una caratteristica patologica derivante da una fissazione orale (simile alla teoria freudiana). Secondo questa prospettiva, la persona cerca una gratificazione per colmare un vuoto interno lasciato da carenze nelle figure di riferimento durante l'infanzia.

Anche Lyda Zaccaria Gairinger (1955) ha definito la dipendenza affettiva come uno stato patologico, indicante un disturbo dello sviluppo dell'Io, caratterizzato dall'utilizzo di meccanismi di difesa molto elementari (Parisi, Morelli & Marogna; 2019).

Marazziti (2015) ha discusso della dipendenza affettiva nei termini di “pulsione fusionale” che persiste nel tempo, andando oltre la fase dell’innamoramento in cui essa può essere considerata non patologica.

La definizione di dipendenza fornita da Galimberti nel Dizionario di Psicologia (1992) è la seguente:

Modalità relazionale in cui un soggetto si rivolge continuamente agli altri per essere aiutato, guidato, sostenuto. L’individuo dipendente, avendo una scarsa fiducia in sé stesso, fonda la propria autostima sull’approvazione e la rassicurazione altrui, ed è incapace di prendere decisioni senza un incoraggiamento esterno” (Galimberti, 1992, p. 290).

Come riportato da Luciano Carrino (2019), nel contesto del lavoro psichiatrico, della psicologia, della psicoanalisi e di diverse forme di psicoterapia, il termine "dipendenza" viene comunemente utilizzato per descrivere un disordine nelle relazioni interpersonali che richiede un intervento correttivo. Questo termine porta con sé una connotazione negativa e contrasta con il concetto di "autonomia", il quale è invece associato a valori positivi (Pascolo-Fabrici & Bonavigo, 2019, p. 11).

Appare quindi evidente come nella società e cultura occidentale la dipendenza venga stigmatizzata, poiché spesso intesa come debolezza che pone la persona in una condizione di passività; questo contrasta nettamente con l'ideale moderno, che enfatizza la ricerca dell'autonomia e dell'indipendenza a qualsiasi costo (Parisi, Morelli & Marogna, 2019).

2. Il concetto giapponese di Amae


Come riportato nel testo di Parisi, Morelli & Marogna (2019), un interessante esempio di diversa accezione conferita alla dipendenza affettiva deriva dal lavoro dello psicoanalista giapponese Takeo Doi. L’autore, nel suo testo “Anatomia della dipendenza” (1971), ha sottolineato l’estrema necessità dell’essere umano di richiedere e ricevere amore, per poterlo donare a sua volta. Nella cultura giapponese tale concetto è ben noto e viene comunemente espresso dalla parola amae, forma sostantivale di amaeru, verbo intransitivo che significa “dipendere e presumere sulla benevolenza altrui” (Id., 1962). Ha la stessa radice della parola “amai”, aggettivo che significa “dolce” (Id., 1992). Amae è tendenzialmente utilizzato per descrivere l’atteggiamento o il comportamento di un bambino nei confronti dei suoi genitori, in particolare della madre, ma può anche essere usato per descrivere la relazione tra due adulti, ad esempio tra partner o tra datore di lavoro e sottoposto (Id., 1962). L’autore riporta l’inesistenza di una singola parola, in inglese (e nelle altre lingue occidentali) che sia equivalente ad amae.

Il sentimento di amae può essere considerato applicabile universalmente, non è mediato da parole bensì trasmesso non verbalmente, anche se può essere riconosciuto mediante una riflessione (Id., 1992). Implica una certa dipendenza psicologica, poiché chi desidera “amaeru” (dipendere dalla benevolenza, dalle cure di qualcun altro) necessita di un’altra persona che percepisca tale bisogno e che sia in grado di soddisfarlo (Ibid.). Non è però uno stato necessariamente passivo, in quanto presuppone una certa capacità da parte della persona di iniziare l’azione che porta ad amae. Amae indica un sentimento in stato di soddisfazione, ma può essere vissuto come un desiderio qualora frustrato (Ibid.).

Il desiderio di amaeru influenza ancora gli adulti, e si manifesta anche nella relazione terapeutica, attraverso il transfert psiconalitico (Id., 1962).

Doi (1962) riporta un’analogia tra l’amore oggettuale passivo individuato da Balint (1952), nominato “amore primario”, e il desiderio di “amaeru”. Anche i concetti psicanalitici di “simbiosi madre-bambino” (Mahler, Pine & Bergmann, 1975), di “Nucleo affettivo del sé” (Emde, 1983) e di “intersoggettività (2)” (Stern, 1985) possano essere correlati al concetto di amae (Doi, 1992).


3. Il concetto di Amae a confronto con: amore di transfert, dipendenza affettiva e attaccamento


Il desiderio di dipendenza espresso da “amaeru” può essere definito come la ricerca di un ripristino della quasi unione perduta tra madre e bambino, come la ricerca del “sentimento oceanico” espresso da Freud (Doi & Schwaber, 2016).

Sempre a confronto con la teoria freudiana, T. Doi e Schwaber (2016) hanno riportato un’interessante similitudine tra l’amore di transfert ed il concetto di amae, evidenziando che entrambi i fenomeni coinvolgono un desiderio di dipendenza affettiva e la ricerca di una relazione che possa rievocare un legame di unione simile a quello tra madre e bambino.

Per comprendere meglio l’analogia proposta dagli autori tra amae e amore di transfert, è necessario sottolineare che l’amae, pur essendo un’emozione silenziosa, espressa non verbalmente, in stato di frustrazione può trasformarsi in un desiderio, entrando così in gioco nella formazione di diverse emozioni, come amore (anche erotico, n.d.a.), invidia, gelosia, risentimento ecc. (ibid.)

Riportando il pensiero di Freud (1915) sull’amore di transfert, gli autori hanno evidenziato il fatto che le uniche difficoltà veramente serie nella conduzione della psicanalisi risiedano nella gestione dell’amore di transfer, da intendersi come qualcosa di genuino ma irreale, come:

Una situazione che deve essere attraversata nel trattamento e ricondotta alle sue origini inconsce e che deve contribuire a portare tutto ciò che è più profondamente nascosto nella vita erotica del paziente nella sua coscienza e quindi sotto il suo controllo” (Ivi., p. 166).

L’amore di transfert si genera nella, e grazie alla, relazione psicanalitica. L’idea che l’amore di transfert possa essere collegato all’amae introduce di conseguenza una prospettiva interessante nel contesto dell’analisi. Se si comprende l’amore di transfert come un’espressione di amae (dal paziente non riconosciuto, frustrato e per questo plausibilmente erotizzato, n.d.a.), potrebbe perdere parte del suo potere dirompente o minaccioso per l'analista, poiché si tratterebbe di una manifestazione di un bisogno di dipendenza affettiva e di ricerca di comfort, comune e condiviso. Questa prospettiva potrebbe favorire una comprensione più empatica dell'amore di transfert e potrebbe aiutare l'analista a gestirlo in modo più efficace (Doi & Schwaber, 2016).

Susumu Yamaguchi, accademico giapponese specializzato in psicologia sociale è culturale, ha riportato nel suo lavoro (2004) un interessante confronto tra i concetti di dipendenza (intesa nella sua connotazione maggiormente indesiderabile e patologica, quale eccessiva dipendenza dagli altri (3)) e attaccamento, con il concetto giapponese di amae. 

Per ciò che concerne amae e dipendenza, secondo l’autore entrambi i termini veicolano un desiderio di dipendenza affettiva e la ricerca di conforto e supporto da parte degli altri. La principale differenza tra i due risiede però nel modo in cui l'individuo affronta il controllo sull'ambiente. Con "amae", la persona cerca di esercitare controllo sull'ambiente utilizzando qualcuno che è più potente nella situazione rispetto a sé. D'altra parte, nella "dipendenza", l'individuo tende a rinunciare al controllo e diventa dipendente dagli altri. L'amae può essere considerato un tentativo di controllo primario, in cui il bersaglio del controllo è l'ambiente esterno, mentre la dipendenza può essere vista come una forma di rinuncia al controllo primario, in cui l'individuo si mette sotto l'influenza degli altri.

Yamaguchi (ibid.) riporta che nell’ambiente culturale asiatico l’intento (esplicito, n.d.a.) di esercitare un controllo primario sull’ambiente non è ben accolto, in quanto comporta tentativi di influenzare realtà preesistenti (ad esempio persone e circostanze), ricorrendo anche ad atteggiamenti di predominio e aggressività (Weisz, Rothbaum e Blackburn, 1984, p. 955). Nella cultura giapponese, l'amae sembra invece essere socialmente accettato come un modo per esercitare controllo sull'ambiente senza disturbare l'armonia interpersonale, particolarmente ricercata e salvaguardata nella cultura asiatica (Yamaguchi, 2004).

In merito al concetto di attaccamento, sembra esservi consenso da parte dei ricercatori sul fatto che amae e attaccamento siano strettamente correlati (Doi, 1971; Rothbaum et al., 2000), seppur non equiparabili. Yamaguchi, riportando gli esiti di uno studio empirico svolto nel 2003, ha mostrato una similitudine tra amae desiderabile (considerato tale dai soggetti -giapponesi- intervistati) e l’attaccamento sicuro (di tipo B), mentre l’attaccamento insicuro (tipi A e C) tendeva ad essere associato ad una forma di amae non desiderabile, maggiormente correlata alla dipendenza. L’amae quindi, inteso come precedentemente discusso, nella sua forma auspicabile e condivisa, sembrava essere maggiormente paragonabile ad un attaccamento di tipo sicuro, nonché espressione dello stesso, in età adulta.

4. Riflessioni conclusive: come il contesto culturale influenza il modo di intendere amore e dipendenza e conseguentemente la pratica psicoanalitica 


Emerge quindi, da quanto precedentemente esposto, la differente concezione ed accezione che viene data alla dipendenza nel contesto culturale giapponese, rispetto a quello occidentale.

T. Doi riporta:

Nella società giapponese la dipendenza dai genitori è favorita, e questo modello di comportamento è persino istituzionalizzato nella sua struttura sociale, mentre forse prevale la tendenza opposta nelle società occidentali.” (Doi, 1962, p. 4). La dipendenza sembra quindi essere, appunto, istituzionalizzata in Giappone, ed è fortemente presente non solo nei legami affettivi (familiari e sentimentali) ma anche all’interno delle relazioni formali, comprese quelle tra insegnante e studente, o tra medico e paziente (Ibid.).

La differenza linguistica sembra quindi in grado di riflettere una differenza psicologica fondamentale tra il Giappone e il mondo occidentale (Ibid.). Balint (1994) sottolineava la povertà delle lingue europee nel non poter distinguere tra i due tipi di amore oggettuale, attivo e passivo.

Secondo Doi e Schwaber (2016) la religione (in occidente) è ciò che più si occupa del desiderio di dipendenza dell’uomo, non altrimenti legittimamente soddisfatto nelle relazioni umane quotidiane.

Gli autori (Ibid.) hanno evidenziato un interessante cambiamento nell'ideale occidentale di indipendenza e libertà, che sembra essere sempre meno condiviso dalla maggioranza degli individui, a differenza del passato. Sebbene la cultura occidentale abbia sempre enfatizzato una netta separazione tra sé e gli altri, secondo Doi, è diventato evidente che l'identità umana non può essere mantenuta senza qualche forma di dipendenza.

Nella pratica clinica, Doi ha notato delle differenze significative tra i pazienti giapponesi e quelli occidentali riguardo l'espressione della dipendenza dagli altri. I pazienti giapponesi sembravano avere meno difficoltà nel riconoscere e manifestare apertamente la loro dipendenza, il che, in alcuni casi, li predisponeva a meno conflitti psicopatologici rispetto ai pazienti occidentali. Questi ultimi, al contrario, vivevano la propria dipendenza con sensi di colpa e vergogna, arrivando talvolta a reprimere o stigmatizzare tale bisogno.

Tali differenze culturali hanno un impatto significativo sulla pratica psicoanalitica, poiché influenzano il modo in cui la dipendenza, anche quella dal terapeuta, viene vissuta ed espressa.

Takeo Doi sottolinea come la terapia psicoanalitica, spesso considerata universale, debba invece tener conto delle specificità culturali (Ibid.). Nel contesto giapponese, dove il desiderio di dipendenza è visto come naturale e permea tutte le relazioni, l'analista si trova ad affrontare sfide diverse rispetto al desiderio di dipendenza del paziente occidentale, dove si presume che tale bisogno sia temporaneo e scomparirà con la risoluzione dei problemi del paziente.
Doi riporta:

Dobbiamo trarre la curiosa conclusione che l'emozione dell'amore primario è facilmente accessibile ai pazienti giapponesi attraverso la parola amaeru, mentre per i pazienti occidentali, secondo Balint, può diventare accessibile solo dopo un'analisi laboriosa. Nelle mie osservazioni ho anche notato che il riconoscimento dell'amaeru da parte dei pazienti giapponesi non significa la fase finale del trattamento, come accadeva nei pazienti di Balint.” (Doi, 1962, p.3)

Secondo l'autore, all'interno di questa apparente contraddizione risiede la chiave per comprendere le differenze psicologiche tra Giappone ed Occidente. Gli studi di Balint suggeriscono che l'impulso ad essere amati, un desiderio che può essere frustrato e soppresso nell'età adulta, riemerge nella sua forma pura solo al termine del trattamento psicanalitico. Al contrario, la prospettiva di Doi, basata sulla sua esperienza clinica con pazienti giapponesi, rivela che questi ultimi tendono a mantenere intatto il desiderio di essere amati anche dopo la delusione dell'amore primario e la formazione del narcisismo. Essi enfatizzano il loro indistruttibile desiderio di "amaeru" con l'intento di celare le intense emozioni derivanti da questa frustrazione (Ibid.).

Le riflessioni di T. Doi ci invitano quindi a considerare attentamente come le differenze culturali possano influenzare profondamente il modo in cui l'identità e la dipendenza vengono vissute nel contesto culturale di riferimento e trattate nella pratica psicanalitica.



Note


(1) Freud S. (1905), “Tre saggi sulla teoria sessuale”, in Opere, Vol. IV, Boringhieri, p.506.


(2) Come riportato da De Blasi (2017; 2022), secondo la teoria di Daniel Stern (1985) il bambino, sin dai primi momenti di vita è attivo e dinamicamente impegnato a costruire un senso di Sé emergente, grazie ad innate potenzialità che si delineano come capacità emergente di esperire il senso di un processo e dei suoi prodotti. In tale periodo è indispensabile la reciproca interazione “sociale” tra madre e bambino, in gran parte al servizio della regolazione fisiologica. Vengono altresì attribuite immediatamente al bambino, da parte dei genitori, intenzioni e motivazioni, avendone quindi una rappresentazione che lo identifica come persona in grado di avere esperienze soggettive, sensibilità sociale ed un senso di Sé in formazione. Affinché il bambino possa avere un senso del Sé formato è necessaria la presenza di una qualche forma di organizzazione di cui egli possa fare esperienza e che funga da punto di riferimento. Tale funzione viene espletata dalla percezione di quelli che Stern chiama “affetti vitali”, relativi alla possibilità di esperire le risposte affettive e sintotiche della figura di accudimento, con la quale il bambino sperimenta intimità e attaccamento ma anche azione, volizione, continuità e coerenza (piuttosto che fusione e indifferenziazione). Intorno ai nove mesi il bambino compie un salto evolutivo che permette l’emersione di un senso del Sé soggettivo; tale movimento avviene mediante ciò che Piaget definisce un “decentramento”, che permette quindi al bambino di sperimentare intimità psichica con l’altro, consentendo in questo modo la comparsa di un campo di relazione intersoggettivo. Nell’accezione di Stern, solo con l’avvento dell’intersoggettività può realmente verificarsi qualcosa di simile alla piena unione delle esperienze psichiche soggettive. In tal senso, l’intersoggettività è all’origine sia della dinamica di separazione/individuazione che di nuovi modi di sperimentare l’unione, attraverso nuove modalità di “essere con l’altro”.


(3) Si veda definizione di dipendenza fornita da Galimberti ne “Dizionario di Psicologia” (1992, p. 290), precedentemente riportata.




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